occhio di bue # 2

Gli annunci si trovano ovunque. Sulle cabine telefoniche, sulle porte dei pub, sulle saracinesche dei negozi a penzolare come lembi di pelle, appiccicati ai muri del centro storico o sulla bacheca dell’Università a sovrapporsi gli uni sugli altri, sgomitare, annunci su annunci che boccheggiano per emergere in superficie. Corso di liuto, yoga, chitarra classica, capoeira. Introduzione a Gurdjeff. Studiare sarà un gioco: Policonsult…

Una presenza fruscia alle mie spalle. Un omino sui trentacinque con radi capelli color carota e occhi da insetto. Si pianta davanti alla bacheca a gambe larghe. Fissa la matassa degli annunci, annuisce, tira su col naso come non se lo soffiasse da un mese. Di colpo sventra la bacheca e strappa gli annunci centrali, li appallottola, li pigia nella pattumiera, li appiattisce sul fondo accanendosi col tacco della scarpa, una furia. Soffia dalla mandibola sporgente. Poi srotola il suo annuncio, e lo sigilla delicatamente alla bacheca. Preme il pollice sullo scotch eliminando ogni residuo d’aria. Mi sorride, come potrebbe sorridere una mosca. Indica l’annuncio. Musicoterapia.

Più in là: risolvi ogni conflitto interiore, vinci la timidezza, impara a parlare in pubblico. Un po’ di tecnica e sei un leader, la gente ti batte il cinque per la strada. Come? Col teatro, è ovvio.

Il programma: lavoreremo con l’attore nello spazio. Mi visualizzo galleggiare tra le stelle con una bolla d’acquario in testa. Il corso si chiuderà con uno spettacolo finale. Rileggo: spettacolo finale. Sgrano gli occhi: parenti e amici che mi vedono recitare e trionfare. Applausi, grida, cascate di petali dai loggioni. Martin Scorsese che entra nel mio camerino. Lo abbraccio, dico: basta piangere, Martin, ti capisco.

Ne individuo un altro: corso di teatro. La ragazza della foto è in ginocchio, il viso squarciato dagli spasmi, gli occhi annacquati di lacrime fissano qualcosa oltre l’inquadratura. Metodo Stanislavskij, garantisce il volantino. Aggrotto le sopracciglia: essendo io la reincarnazione di James Dean sono naturalmente attratto dalla sofferenza recitativa.
Mi soffermo sulla nota biografica. L’insegnante ha un curriculum roboante. Studi coi più grandi maestri russi, riconoscimenti, premi. Ha abbandonato le scene per dedicarsi alla pedagogia, rinunciato alla gloria per darsi all’insegnamento. Sospiro tra me, sfregando l’annuncio al petto: ecco un apostolo di bontà teatrale, un vero maestro.
In quel momento non mi rendo conto del rischio, procedo sull’orlo dell’abisso con l’ingenuità dei miei vent’anni. Sono troppo inesperto per sapere che una buona percentuale dei corsi di teatro per dilettanti sono tenuti da personaggi sordidi, pericolosi, la cui preparazione artistica si basa su un paio di laboratori frequentati dopo il diploma in ragioneria, attori mancati, incattiviti dai rifiuti, per i quali l’insegnamento è un’imperdibile occasione per scaricare sugli altri la frustrazione del proprio fallimento professionale.
In genere presentano caratteristiche comuni. Amano proporsi come maestri, guru, santoni imperturbabili; appartengono a sette new age, oppure si definiscono “buddisti non praticanti”; si fidanzano con un/una ex allieva (molto più giovane di loro), colla quale intrattengono relazioni infernali; predicano l’amore universale, l’ecologismo, e la prossima apocalisse; fumano come ciminiere; sono vegetariani o vegani; non vanno mai a teatro; sorridono poco, la loro missione nella vita, dicono, è fare di te il più grande attore del mondo con una sola lezione a settimana, e guai a contraddirli: hanno canini affilati, e occhi gelidi; abili nel blandirti, ti adulano e parlano di talento, corrugando la fronte ti sussurrano: So che tu ce la puoi fare; propongono tecniche recitative mutuate da rapidissime letture di manuali classici del teatro moderno.

Striscia sul parquet, mi dice il maestro. Rotolati, strappati i capelli. Sei disperato. Ora, diventa Amleto. Ergiti sulle torri di Elsinore, e attendi lo spettro di tuo padre. E ora: gufo gigante! Sì, Maurizio, un gufo gigante, non discutere! Uh Uh, fai il verso! Amleto, e poi un gufo. Bravo, Maurizio, ma adesso fallo contemporaneamente. Amleto gufizzato. Gufìzzati. Metodo Stanislavskij. Prendi spunto dalla luccicanza del lampadario di tua nonna, te la ricordi? Reminiscenza. Piangi! Ridi! Pensa al colore rosso. Merda mentale, caro mio, merda mentale. Essere non recitare, sei sbagliato, non vali niente. Non sei un attore biomeccanico, ma merda mentale.
Aldo si siede e incrocia le gambe, trema tutto. Nonostante nel teatrino ci sia divieto di fumare, accende una Muratti, e la fuma per intero, senza dire una parola. Gli altri del corso non aprono bocca, sono terrorizzati. La morte, dice Aldo, e tossisce subito, lotta col raschio in gola, e la cosa sembra dargli un’uggia terrificante. La morte, ripete più volte. Poi cita in sequenza: Budda, Confucio, Epitteto, e Sai Baba, e li combina tra loro: ecco perchè devi essere un gufo gigante, mi dice infine, hai capito? Avanti il prossimo, urla di colpo, la voce catarrosa.

Gli adolescenti che desiderano fare gli attori, i ragazzetti che hanno ambizioni artistiche e sognano un futuro sul palco sono esseri fragili, insicuri. Hanno problemi a socializzare. A volte appaiono disinvolti e egocentrici, ma basta una frase fuori posto per farli crollare. Attraversano un’età per cui è naturale avere bisogno di una guida, che li aiuti a orientarsi nell’enorme guazzabuglio nel quale siamo invischiati tutti. E invece ci sono questi impostori che s’incollano nei pensieri, che suggono dalle paure, dai dubbi interiori, e che per qualche lercia ragione pretendono di insegnarti a vivere. Sofferenza uguale miglioramento, dice Aldo. Più soffri e più diventi bravo, dice: l’equivoco mi perseguiterà per anni.

Hai talento, mi dice al termine della lezione, ma sta per andarsene, allora gli dico Aspetta, Aldo! Devo chiederti una cosa. Da giorni medito di fare il grande passo: abbandonare l’università, intraprendere la strada del professionismo, ma non so da dove cominciare, e lo imploro: Cosa devo fare, Aldo?
Lui tace, mi fissa. Una patina violacea, glaciale, tinge i cornicioni e l’asfalto. Le macchine posteggiate. È il crepuscolo. Dai pini marittimi del viale, spazzati dal vento, una pioggerella di aghi cade su di noi. Aldo continua a tacere. Azzardo: Devo frequentare un’accademia di teatro o gettarmi nell’arena dei provini? Farmi notare da un regista di grido o frequentare caffè alla moda?
I lineamenti del suo viso prendono un’obliquità sinistra, rughe profonde gli solcano la faccia da bambino.
Prova con questo, dice, e estrae dalla tasca un volantino spiegazzato. A me ha aiutato molto, aggiunge. E poi fa una smorfia strana, da gastrite. Ravvia i capelli nerissimi, pettinati da teenager, e finalmente smette di sorridere, proprio non ce la faceva più. Apre la portiera della sua Ritmo scassata, gira la chiave. Un acuto stridulo, insistente, rompe il silenzio. Il volantino che mi ha dato ondeggia tra le mie mani. Leggo: libera l’energia che è dentro di te, trova la pace interiore. È un corso di Reiki.






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