occhio di bue # 1

Lui aveva un nome. Nove lettere in totale, distanziate da un candido spazio intertestuale. Due parole precise, nette. La prima strusciava sul mio palato, come una meringa che si sgretola e si scioglie in una lingua zuccherina. La seconda non dava scampo. Era il gong del quindicesimo round, la linea retta di un faro nella notte. Un’eco nel cervello. Cercavo il suo nome ovunque, e sapevo adattarmi, qualsiasi argomento andava bene. Un’intervista postuma, una foto in bianco e nero, una citazione. Raccoglievo materiale, catalogavo. Pagine strappate, cartoline, poster, libri, gadget. Sveglie, accendini, ogni cosa. Il materiale cartaceo finiva in una cartellina verde su cui avevo apposto la sua firma, che ormai imitavo meglio di quella di mia madre per le giustificazioni a scuola. Che firma, James Dean. A seguire data di nascita e morte: 1931-1955. Ero persino in grado di firmare Maurizio Patella come avrebbe fatto James Dean se gli avessero chiesto di firmare col mio nome.

Sapevo tenere una sigaretta in mano in dodici modi differerenti. Li avevo studiati tutti, meticoloso. In genere, però, fumavo con la sigaretta trattenuta a pinza, tra indice e pollice, che poi lanciavo a terra, e calpestavo col tacco dei miei stivaletti da motociclista solo per sentire la ghiaia scricchiolare sotto la suola. Ma, in verità, prediligevo le pozzanghere. Mi piaceva osservare la brace del mozzicone sfrigolare nell’acqua piovana. Durava poco meno di un secondo, ma mi piaceva, quello sfrigolio parlava di me. Live fast, die young. Vivi veloce, muori giovane. Avevo visto una foto in cui Jimmy Dean si era fatto ritrarre sdraiato in una bara. Prima o poi sarei entrato in un’agenzia di pompe funebri e avrei chiesto all’impiegato se poteva farmi una foto simile, con la mia Polaroid della Comunione. Alzavo lo sguardo di tre quarti, dal basso in alto. Duettavo con la telecamera immaginaria che inquadrava i miei primi piani, scrutavo la notte. Lasciavo che il fumo dell’ultima boccata evadesse dalle mie narici con una dolcezza insostenibile, scaldandomi le guance, accarezzandomi con commozione: James Dean fumava così. James Dean si guardava intorno come facevo io. Guardava le ruolotte abbandonate esattamente come stavo facendo io. E quel lampione storto, e la luce arancione sull’asfalto. Di solito mi rifugiavo in un parcheggio deserto quando mi allenavo a essere James Dean. Di notte, verso l’una. Mi stringevo nel mio cappotto blu, alzavo il bavero, e scuotevo la testa. (No e no, così non va). Mi appoggiavo alla ringhiera e fissavo di sotto, il greto di un ruscello e lo squittìo dei ratti. Ma cosa non andava? Ero confuso. Ma c’era sempre qualcosa che non andava: il mondo, la vita, la ribellione. Insomma non andava bene per niente, e andava male, ma io scrutavo il cielo di notte, e scrutavo le nuvole gonfie, che sfumavano la calotta sanguinosa sopra la città. (No e no, così non va). Almeno piovesse, mi dicevo. Quante volte ho sperato che piovesse. La pioggia sarebbe stata una cornice perfetta per permettermi di sfoggiare un intero catalogo di smorfie, sbuffi, ammicchi, sorrisetti. Sapevo riprodurre espressioni di malinconia, noia, tristezza. Più difficili quelle di gioia, dovevo lavorarci. Scuotevo la testa – no e no, così non va – e non voleva piovere. E ancora m’immaginavo come il mio ciuffo verticale si sarebbe sciolto nel temporale se soltanto avesse piovuto, di come le gocce avrebbero imperlato il mio cappotto. Deve, deve piovere! Va bene: il mio cappotto non era identico a quello di James Dean. Non era lo stesso cappotto che Jimmy indossava in un scatto rubato a Times Square, nel ‘55, dove Luicamminava sotto la pioggia e le luce dei neon tremolavano sui grattacieli. Il mio cappotto era troppo lungo, sembravo un crostaceo gigante. Non meritavo la pioggia. E poi ero a cavalcioni di una vespa bordò: niente a che vedere con la Indian 500 del ‘53 con la quale Jimmy sfrecciava nelle albe grigie di Hollywood. Ma l’idea, caspita, la predestinazione della mia vita… Piovi, maledizione.

Quella volta me ne restavo nel mio parcheggio, e fumavo l’ultima sigaretta, e scrutavo la notte (no e no, così non va). Rotolavo sul muretto alla ricerca della posizione idonea. Nel dettaglio quella della locandina di Gioventù bruciata in cui Jimmy si appoggia al muro e tiene la sigaretta con le dita a virgola. La concentrazione, persa: mi ero appena ricordato di essere Maurizio Patella. Avevo sbagliato, ero rientrato in me. No, non potevo rotolarmi sul muro come Maurizio Patella. Non potevo fumare come Maurizio Patella: io ero predestinato, io. Dovevo fumare come Lui. E mentre mi tormentavo osservavo come mi tormentavo. Camminavo avanti e indietro senza potermi fermare. Ma da uno a dieci quanto assomigliavo a James Dean? L’altezza era quella: 1,75 scarsi. Ma gli occhi, no, quelli di Jimmy erano verdi, e allora avrei messo delle fottute lenti a contatto. E gli zigomi? I miei non erano sporgenti come i suoi: risucchiai le guance nel palato. Ma esistevano in Italia dei concorsi per sosia di James Dean? Mi sarei classificato tra i primi tre o sarei arrivato solo tra i finalisti? E poi Dean faceva l’attore, l’attore professionista, e io ero una squallida matricola, e io ero nato a Genova in Italia, e lui a Fairmount nell’Indiana, e la somma dei numeri della mia data di nascita faceva 8, e la sua 5 e allora era un casino, allora.

O trovavo un corso di teatro o finivo al manicomio. E all’improvviso l’eco di un tuono ruppe il mio delirio silenzioso. Alzai lo sguardo ma questa volta come Maurizio Patella. Ero impietrito. Plic. Una goccia. Plic. Un’altra, e un’altra ancora che si schiantò sulla mia fronte. Il mio ciuffo si afflosciò come un fiore nel temporale, e venni pervaso da una insolita sensazione di freschezza mentale. Ero tutto chiaro, ora. Il cielo mi benediceva. Non c’erano dubbi. Lo scroscio divenne potente, il frastuono assordante, e io allargai le braccia a croce. Ero il predestinato, io. Ero la reincarnazione di James Dean. Non mi restava che cercare un corso di teatro, e fare l’attore professionista, e diventare un divo. Il resto sarebbe venuto da sé. In quel momento, mentre grondavo pioggia, sfoderai tutti i sorrisi alla James Dean di cui ero capace. Ne inventai di nuovi, ero un creativo. Quando fui sazio, decisi che potevo andare a casa, e visto che la decisione ormai era presa, potevo finalmente riposarmi. Mi impegnai sulla pedivella della vespa. Provai, e riprovai. Non voleva partire. Allora mi addossai al muro, e aspettai.







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