occhio di bue # 3

Terza volta che si gira. Cerco di concentrarmi sulle immagini, fare finta di niente, non voglio incoraggiarlo, ma che vuole? Mi fissa, col gomito appoggiato allo schienale, senza curarsi del cortometraggio proiettato sul maxischermo. Forse la mia prova d’attore lo sta commuovendo, e mi ha riconosciuto. Forse vuole ringraziarmi e abbracciarmi. No, è un maniaco. E forse mi vuole menare. Il cortometraggio gli fa schifo, e mi vuole menare. Non resisto: lo guardo. Un cranio nero avvolto da un’aurea argentata sulla cui sommità spiccano capelli finissimi, come fili di rame, mossi dall’aria condizionata. Riporto subito lo sguardo allo schermo.
Ricordo questa scena del cortometraggio: l’abbiamo girata mille volte. Il mio surrogato virtuale vaga per i corridoi di una piscina comunale durante la chiusura notturna. Riconosco la polo verde che indossavo, il dettaglio delle vene che si ramificano sulla mia mano. Ma io non cammino così, perchè nessuno mi ha detto che cammino come uno zombie?

Di colpo, la mia faccia. Enorme, colossale, in primo piano. Tre metri di mascella, due metri di pupille. Dalle labbra un sussurro lentissimo, da zombie pur quello, un sospiro che mi spazza via. Come incontrare il proprio istinto di morte. Porto una mano al petto, ansimo. Intanto, il maniaco continua a fissarmi.

Ora l’inquadratura indugia sulla scaletta d’alluminio, che brilla nell’oscurità. Sull’acqua screziata dai raggi di luna. Sui filamenti di boe attorcigliati, sulle mattonelle della piscina. I colori si uniformano all’acqua blu metilene, degradano nella notte. Ai piedi del trampolino appare una figura esitante. Una ragazza minuta, diafana, che mi raggiunge con una corsetta poco convinta, e esce dall’inquadratura senza dire nulla, seguita a breve distanza dallo zombie, cioè io. Poi lo schermo si fa nero, scorrono i titoli di coda. In quanto protagonista del corto, il mio nome è il primo a essere risucchiato dal soffitto. Attendo che qualcuno azzardi un applauso: nulla. Si accendono le luci di sala. Mi volto qua e là nella speranza di raccogliere qualche commento, qualcuno che dica mica male lo zombie. Ma il pubblico in sala si alza, stira la schiena. Nessuno mi riconosce. Solo il maniaco seduto davanti a me.

Posso mentire o dire la verità. Tergiversare, prendere tempo, posso cavarmela con frasi fatte, sorrisi plastificati.
E allora fai cinema, dice. Cosa, dico io preparandomi allo scontro. Fai cinema, ripete. È il maniaco. L’unico che mi ha atteso all’uscita del cinema. Più che altro teatro, dico, e tu che lavoro fai, gli chiedo cercando di coglierlo in contropiede. Che lavoro faccio, sospira. Eh, dico. Odontotecnico.
Mulino le pupille a 180 gradi: trovare subito un appiglio che dia il via al soliloquio: fa l’odontotecnico, cosa posso chiedergli? Cosa ci dicono le statistiche sui denti incapsulati? E le gengive sanguinanti? L’importante è fare in fretta, fare in fretta. Faccio teatro, erompo all’improvviso. Teatro, chiede lui come non capisse. T-e-a-t-r-o, scandisco. Argomenti sull’odontoiatria: zero. Nel senso, fa lui. Nel senso che lavoro in teatro, dico subito con la lingua felpata. Eddai, fa l’altro, in fondo che ci vuole a fare gli attori? È una stronzata megagalattica, e sghignazza così forte da far girare alcune persone, ma non è sazio, mi vuole pungolare, gli occhi a lama di coltello: hai davvero studiato recitazione o sei solo un mentecatto che vuole fare colpo sugli altri? Forzo un sorriso. È sufficiente sillabare il nome dell’accademia d’arte drammatica che ho frequentato perché il maniaco si convinca di avere davanti a sé un vero attore con tanto di diploma.

Attore diplomato, ora non metterti a recitare eh, dice lui, e si para come lo volessi colpire con un pugno. Tossisce dalle risate. D’altronde, penso io, è noto a tutti che gli attori diplomati importunano gli estranei, li trascinano a forza in angoli di strada poco illuminati, e gli urlano: la donzelletta vien dalla campagna!
Non ti preoccupare, lo rassicuro. Non recito.
Molti penseranno che una volta conquistata la sua fiducia, il maniaco mi tempesti di domande, mi schiaffeggi pur di sapere qualche curiosità, arguzia, se è vero che gli attori imparano le battute a memoria oppure vanno a braccio (certo, come no), se recitare davanti al pubblico fa paura (fa paura quando non c’è pubblico), se è difficile uscire dal personaggio (uscire dal personaggio del morto di fame, sì). Cose così. Ma niente di tutto questo. I maniaci sono persone normali come me e te, e toccano i punti di uno schema fisso.
La prima domanda è retorica.
È vero che le attrici sono tutte troie? Vero che la danno a tutti? Di certo chi lavora nello spettacolo trascorre le giornate a scopare.
Io, di solito, sgrano gli occhi un poco, solo una lieve contrazione delle sopracciglia, e annuisco: verissimo, dico, tutte troie: basta dirgli che sei un regista, e ti violentano.
Il maniaco ridacchia e ringhia, si terge la fronte dal sudore. Vero che gli attori delle fiction sono froci?
Tutti froci, dico calmo. Poi riassumo: attori e registi sono tutti froci, e le attrici tutte troie. Un gran puttanaio.
Se faccio l’attore me le scopo tutte, sottolinea il maniaco.
Certo, lo incoraggio io.
Sarei l’unico attore non frocio della fiction, fa lui: ma è vero che vi drogate dalla mattina alla sera, e che le vacanze le fate sugli yacht a Formentera, e pippate cocaina sulle minne delle attrici, e bevete mohito e cantate ‘O sole mio, e conosci qualcuno famoso?
Io nicchio, per creare suspence.
Dai parla, fa lui famelico.
Io faccio spallucce per invitarlo a farsi sotto. Allora il maniaco prende lo slancio e quasi sbavando comincia a snocciolare una sequela di nomi di personaggi televisivi, starlette, divi della televendita, accarezzatrici di materassi. Io rispondo sicuro, a casaccio, facendo seguire a ogni nome un sintetico commento: frocio, maiala, alcolizzato, impotente, lesbicona, ninfomane, minidotato, altro frocio, troia…
Il maniaco appare sfinito, scuote la testa. Dovevo fare l’attore, dice infine e punta i piedi come un bambino: non è giusto, ripete tra sé, c’è gente come te – mi indica – che se la spassa e non fa un cazzo e fa un sacco di soldi (già, poi ve lo dico, quanti). E quelli come me, che per vivere sono a contatto cogli aliti fetidi, e le dentiere delle vecchie.
Io, annuisco tristemente. Ma il maniaco vuole aggiungere ancora qualcosa. È che si ricorda una poesia che ha imparato alle elementari, la voglio sentire?
Non faccio in tempo a rispondere che lui corruga la fronte, e i versi escono piano, un soffio delicato. La poesiola di un coccodrillo che piange.
Gli dico: bravo, hai talento (davvero, non ho mentito). Lui sorride, e poco prima di andarsene oltre le luci dei neon mi confida che il corto faceva schifo, ma io non tanto. Sì, insomma, non facevo così schifo.
Grazie, gli dico.
Ma la ragazza del corto era una troia, vero?
Troiona, rettifico.
Lo sapevo, fa lui. Ma se diventi famoso me lo fai un autografo?





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