occhio di bue # 5

Rovistare nella tasca, tintinnìo di monete, banconote fruscianti. La percezione del denaro mi restituisce un confuso potere sul futuro. E mi teletrasporto galleggiando nella mia personale macchina di Galton, tra probabile e improbabile, e dico col tono delle scelte irrevocabili: «Italiani!» E gonfio il petto. «Basta dormire in squallidi motel che si vedono dall’autostrada». Segue una pausa compiaciuta. Poi strofino le mani, come fanno i vampiri, erompendo in un momento di pura estasi: «Camera singola in un hotel a DUE stelle».

Ma l’indice mi s’incolla al labbro inferiore, le pupille prendono la convessità del punto interrogativo: se però scelgo un hotel a DUE stelle dovrò saltare un pasto al giorno.

Rapido calcolo: la paga giornaliera di un attore varia da un minimo di 54 euro lordi (leggi: 44 netti) fino a un massimo che nella mia fantasia è di svariati milioni di euro, ma nel mio caso – attore medio, come tanti – è circa 75/80/95 euro lordi (da cui togliere il venti percento), che andrà moltiplicato per il numero di repliche che farò, che in genere non sono molte (per il numero vi rimando alla puntata precedente).

Ora, questa è la paga mensile. Sacra, inviolabile. Nessun attore è disposto a corromperla. Deve rimanere intatta in quanto rappresenta una sorta di assicurazione sul futuro, un breve futuro – è evidente – di sopravvivenza garantita, con la quale si pagheranno bollette, affitti, cibo.

Un passo indietro. Vitto e alloggio in tournée.
Il contratto nazionale di categoria prevede che l’artista, nel caso la rappresentazione sia fuori piazza (cioè oltre i confini in cui il datore di lavoro ha sede legale) riceva una diaria di 85 euro che consenta allo sciagurato di pagarsi vitto e alloggio (naturalmente SE il datore di lavoro rispetta la legge, e il contratto nazionale. Ma siamo in Italia).
A oggi, 85 euro non sono sufficienti per coprire le spese di una camera singola, una colazione, e pranzo e cena. Mettiano di fare spettacolo in una grande città come Milano. Sapreste trovare una camera singola a meno di 80 euro? E i pasti? Quanto pensate di spendere per tre pasti? Considerato il denaro a disposizione, le possibilità e le combinazioni si restringono in modo vertiginoso. Vediamole insieme:

1) Camera singola in hotel a DUE stelle. Pasti: nessuno. Soldi rimasti: zero.

2) Camera singola in hotel a UNA stella. Un pasto completo, un panino con bibita (come pranzo o cena), una brioche (come colazione). Soldi rimasti: quasi zero.

3) Letto in dormitorio Caritas. Tre pasti completi al ristorante. Soldi rimasti: zero.

4) Letto in dormitorio Caritas. Mensa dei poveri. Soldi rimasti: tutti.

5) Ricovero in ospedale in codice rosso. Soldi rimasti: tutti, ma con altre conseguenze.

Eccomi quindi in decine di situazioni in cui la camera singola diventa per magia una camera tripla. Camera tripla in hotel dal nome esotico: Hotel du cirque. Tre lettini. Uno per me, uno per l’attore che recita con me, uno per il tecnico luci. Grazie all’indigenza siamo diventati amici per la pelle. Peccato, però, per le coperte che emanano un travolgente aroma di sigaretta, condito di vaniglia e un pizzico di merda di cane. Le pareti in cartongesso, sottili e friabili, si spezzano con un grissino come certi tonni in scatola. Ci sono persino dei buchi qua e là. Forse i topi, non so. In compenso lo scarico del lavandino è otturato col calcestruzzo.
Le frequentazioni non sono propriamente da alta società. Invece del rassicurantedon del pendolo, urla gemiti e frustate a scandire le notti. Anche ora – sei del pomeriggio – c’è uno che raglia come un asino. Bene, dico ai miei compagni: «Ci vediamo al ristorante turco».

Guardatemi mentre scendo le scale con passo scattante. Sono fortunato: lungo il corridoio non c’è traccia del ferocissimo pittbull che mi ha molestato stamattina. Zampetto giulivo sul tappeto, tra le bruciature di sigarette. Cigolìo di una porta. Luce che squarcia la fitta penombra. Bonsoir monsieur, sussura un donnone (credo che sia femmina) coi capelli di stoppa. Mi osserva con occhi maliardi. Alle sue spalle intravedo un letto disfatto, e una lampada di Winnie the Pooh. Bonsoir, rispondo. Silenzio prolungato. Poi, visto che la conversazione non decolla, lei (o lui) si fa da parte per farmi accomodare. Faccio no col ditino. No, no, no, no, no. Devo scappare, dico («Ge duà scappé»). E in effetti, nella foga, inciampo e rischio di rotolare giù dalle scale. Ma non importa, sono contento: avendo saltato il pranzo, stasera mi posso permettere un pasto completo al ristorante turco. E doppia bevuta al bar degli scarafaggi che offre la birra a tre euro. Eccomi, gente: artista in incognito lungo le strade della metropoli. Divora l’asfalto e la luce dei lampioni con le mani ficcate nelle tasche, ed è un attore bellissimo e molto magro. Magrissimo, anzi. Occhiaie bluastre e carnagione giallastra. Roba da malaria. Bavetta agli angoli della bocca. Cous cous, felafel, pasto completo. Due birre. Poi si ragiona su quello che si farà l’indomani: brioche a colazione, kebab a pranzo, panino con la frittata per cena. Coi soldi rimasti si potrebbe vedere l’ultimo imperdibile film con Cristopher Lambert. I suoi occhi strabici mi hanno sfidato dal cartellone pubblicitario di fronte al mio motel a ore. E io so raccogliere le sfide.
Variabili.
Vai a recitare in una città in cui conosci un amico, che ti ospita. O magari l’amico di un amico. Oppure uno sconosciuto incontrato in stazione che si è impietosito nell’ascoltare la storia del piccolo fiammiferaio del teatro: i soldi della diaria rimangono in saccoccia. Pat, pat. Con questi pagherò una settimana d’affitto, riempirò il frigorifero di surgelati, allontanerò la depressione del disoccupato.

Come ospite in casa d’altri mi limiterò a fare la spesa tutti i giorni, a immedesimarmi nel ruolo della donna delle pulizie, riderò quando dovrò ridere, piangerò quando dovrò piangere. Un cortigiano in versione sguattera. Ma mangerò meglio, e avrò i soldi per pagarmi un ingresso in piscina comunale.

L’inferno? Recitare su piazza, cioè nella città in cui il datore di lavoro ha sede legale. Quindi niente diaria, solo i soldi della paga.

Mettiamo che per lo spettacolo ti corrispondano la minima (44 euro netti), tu che fai? Per lavorare sei costretto a pagarti il mantenimento. Cioè lavori, e oltre a non guadagnare finisci per essere più povero di prima. Ma scommettete al mio posto. È un giro di roulette. Rosso, nero. Pari, dispari. Su, forza. Ammortizzerò la perdita con ipotetiche repliche future oppure finirò sul lastrico e venderò la mia stratocaster e l’anima a Satana? Perché, come spero abbiate capito, il guadagno non sta solo sul numero delle repliche dello spettacolo, ma anche nel dove vengono fatte. Scommettete. Anzi, rassegnatevi. Di solito, si accetta tutto.

Una breve divagazione sul mondo del cinema e della pubblicità televisiva.

Altri budget, altre paghe: vengo prelevato alla stazione di Torino Porta Nuova da una Bmw nera, con tanto di autista, al quale consegno la mia valigia di cartone. Durante il tragitto, sudo e taccio nel tentativo di trattenere l’emozione, ma poi non resisto e mi avvento sul pulsante dell’alzacristalli elettrico che alzo e abbasso in modo compulsivo fino a che non mi accorgo degli occhi dell’autista nello specchietto retrovisore. Mi fissano. Azzardo un goffo commento sul campionato della Juventus. Rido a crepapelle. Lui tace, freddo. Siamo arrivati, dice infine. Hotel a QUATTRO stelle.

La ragazza della reception ha un sorriso che sono già pronto a fraintendere. Mi porge la card: camera 303, buona permanenza (attenzione, dice: «Tre zero tre» e non trecentotré, che classe). Grazie, baby. Appena in camera mi spoglio nudo, come nelle pubblicità dell’intimo donna, lanciando mutande e canottiera della salute contro il televisore al plasma. Voglio inaugurare l’idromassaggio Jacuzzi. Ho visto la foto nel depliant, mentre salivo in ascensore. Mi immergo, e quasi mi viene da piangere. Sono commosso, davvero. Ce l’ho fatta, ripeto, ce l’ho fatta (ho sempre sofferto di ipertrofia del risultato, vedo trionfi o fallimenti ovunque: una condanna). Poi, lentamente, cullato dall’idea di rubare gli asciugamani, mi addormento tra le bolle, felice come un maiale nel letame. Anche il bagnoschiuma ruberò. E la cuffia per i capelli. E il portacen… ron ron.

Squilla il telefono. La ragazza mi informa che l’autista mi attende nella hall per portarmi sul set. Mi asciugo, indosso il mio completo sintetico made in China, infilo il portacenere nello zainetto.

Lungo il tragitto domando all’autista se la Bmw ha i freni in carbonio. E ce l’ha il controllo ESP? Ma quanto fa da 0 a 100? Mh, queste macchine tedesche, sbuffo. Non mi convincono le macchine che da 0 a 100 ci mettono più di cinque secondi.

Giungo a destinazione. Alcuni sconosciuti mi stringono la mano, mi indicano una roulotte. Ma guarda, c’è persino il mio nome sulla porta. Oddio, il MIO camerino. E c’è anche il frigobar: succhi di frutta, bitter, perrier. Liquori mignon. Ne stappo uno. Rum Matusalem, roba seria. E sul tavolo, buffet con tramezzini, pasticcini, frutta fresca, un mazzo di fiori adagiato contro la specchiera e una lettera di benvenuto in caratteri gotici, che leggo mentre sbuccio una banana.

Passano circa cinque minuti. Bussano alla porta. Avanti, dico a bocca piena. Ben arrivato, dice l’aiuto regista, che subito sgrana gli occhi. In un silenzio orribile osserva il frigobar aperto e vuoto. Il cabaret di pasticcini vuoto. Le bottigliette vuote sulla moquette. Io faccio spallucce mentre pisticchio gli incisivi con uno stuzzicadenti. Beh, dice la mia faccia, ho divorato tutto e allora? E poi nemmeno: non ho mica mangiato tutto. I tramezzini li ho infilati nello zainetto, vicino al portacenere. E gli asciugamani sono ancora in bagno. Per ora.






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