occhio di bue - intro

Quanti pollici mi hanno coperto? Quante pieghe sono capitate sul mio nome mentre premevate una pagina appallottolata dentro ai mocassini zuppi di pioggia? Quante volte avete strappato, lacerato, diviso a metà il mio nome per impacchettare una bottiglia di spumante, mentre io me ne stavo in un teatro a distinguere i bisbigli del pubblico, a sentirlo sibilare, pronto a giudicarmi, divorarmi?

Non lo sapete, ma forse avete letto il mio nome una domenica pomeriggio. Eravate sdraiati sul divano, la televisione accesa, le gambe allungate sul tavolino di cristallo; i lembi del giornale vi coprivano come un piumone. Oppure un venerdì mattina, al bar. Una manciata di minuti prima dell’ufficio; l’ultimo boccone di brioche appena inzuppato nel cappuccino vi gocciolava tra indice e pollice, e poi sul giornale sotto i gomiti; con un fazzoletto di carta avete tamponato il giornale, strofinato un poco, riducendo il mio nome a una poltiglia scorticata.

Un nome sul giornale lo si paga con una corsa pazza. Lo si paga galoppando al cesso per colpa della pisciarella che ti assale ogni volta che affronti la belva feroce che ha pagato il biglietto. Lo si paga spremendo la vescica, stropicciando i genitali, contorcendosi, cercando di ripetersi con la bocca impastata che si sta vivendo il sogno e che non bisogna avere paura del pubblico, no, è solo questione di concentrazione, pensa al personaggio, anzi non pensare a nulla che sennò ti paralizzi, aiuto mamma, mentre una parte di te fuori controllo apre e chiude il rubinetto affinché lo scroscio ti induca a stillare una goccia di pipì.

Maurizio Patella è il mio vero nome. Iscrivendomi all’Enpals (l’ente che non cura gli interessi degli attori), avrei potuto optare per un nome d’arte, ma quando ti chiami Maurizio Patella la scelta è obbligata: la musicalità, la sentite? La verve? La pungente ironia? Già, anch’io non la sento. Per niente. Ma quella mattina di alcuni anni fa, davanti al modulo dell’Enpals su cui mi veniva posta la domanda amletica – essere o non essere Maurizio Patella? – deglutivo per l’emozione – essere o non essere Maurizio Patella? – sbranavo il tappino della bic, lo mordicchiavo, lo sputavo – essere o non essere Maurizio Patella? – leccavo la catenella legata alla bic, snocciolavo con la lingua le piccole sfere d’acciaio, gustavo la ruggine. Non avevo mai ragionato sul mio nome. Uno se lo porta dietro tutta la vita, ma è come se non l’avesse mai udito davvero. Maurizio. Strano, esotico. No, orribile. Mh, e Patella? Patella come il mollusco di mare? Come la cozza? No, Patella no, dai. Troppo vongolesco, scogliesco. Troppe alghe marce. E poi facile storpiarlo. Accettare di propormi come Patella mi avrebbe esposto agli attacchi dei maligni, ai paragoni, alle battutine. Ma i miei genitori come l’avrebbero presa se avessi rinunciato al nome di famiglia? L’impiegata allo sportello mi osservava. Sputai la bic, sorrisi. Zac, sbarretta trasversale. Avrei sfondato come Maurizio Patella.

Sono apparso sui vostri quotidiani come Maurizio Padella, Maurizio Pastella, Maurizio Paletta, Maurizio Paiella, Maurizio Pasella, Maurizio Pagella… Una volta come Patilla con la i: ce l’avevo quasi fatta. La prima volta che conquistai Patella, mi chiamarono Mauro, come se l’errore di battitura facesse parte della gavetta, della scalata al successo, come se la presa per il culo fosse propedeutica, come se prima di conquistare un briciolo di immortalità tra le colonne di un miserabile giornale di provincia un attore esordiente e mitomane debba vedere il proprio cognome stuprato da uno scribacchino occhialuto con la laurea in filosofia. Immaginatemi, in uno scantinato – ribattezzato fantasiosamente camerino – situato nelle profondità infernali di un teatro ammuffito; rannicchiato su una seggiola di legno, le braccia a cingermi le gambe al petto, sto tremando e a tratti mi sciolgo in qualche urlo stridulo; la lampadina sul soffitto ondeggia un poco, la luce mi sega a metà, come una ghigliottina: se non fossi in mutande sarei uguale al fantasma dell’opera, il ghigno è identico; ed ecco che ora mi agito, in uno scatto faccio a pezzi il giornale, schiumo, rileggo il nome dello scribacchino che ha osato chiamarmi Paiella e l’idea arriva in mio soccorso: scovarlo, picchiarlo, applicargli un collare elettrizzato; ritrovare tutte le copie del giornale affinché lo scribacchino ponga rimedio e corregga il mio cognome. Poi la liberazione dello sventurato sul ciglio di un canale. Un paio di scosse ammonitrici per il futuro, e la mia Lamborghini che sgomma via.

Questa rubrica metterà in ordine le vostre speranze sepolte, darà forma concreta alle nuvole. Vi aiuterà a rimuovere i rimpianti dando un taglio netto ai «se avessi fatto» e i «se fossi stato», perché tutti – tutti, lo so – per almeno un secondo abbiamo desiderato fare gli attori. Tutti abbiamo desiderato gli applausi del pubblico, i «bravo» dalla platea gremita, il nostro faccione in primo piano sullo schermo del cinema. Diventare famosi, essere riconosciuti per la strada, essere seguiti da uno stormo di tirapiedi. Ma anche aggirarci tra lapidi di polistirolo nei panni di un principe danese pettinato come Raffaella Carrà, accarezzando un teschio di plastica e chiedendoci che fine abbia fatto il povero Yorick.

Ebbene, io c’ho provato, ho cavalcato il sogno. Caspita, se l’ho fatto.

Mi presento: Maurizio Patella, classe 75, genovese. Dopo una fallimentare carriera universitaria e una fallimentare carriera sportiva, mi cimento nel teatro alla ricerca del tris. Mi diplomo attore presso la Civica Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, e svolgo la professione con alterne fortune, tra feroci spettacoli dalla fisicità estrema, ambiziosi progetti avanguardistici, animazione di ombre e pupazzi (per i titoli degli spettacoli cercate in rete, ce ne sono alcuni. Provate anche con Maurizio Pagella eccetera).

Nel 2005 vengo candidato miglior attore under 30 per i premi Ubu del teatro, e quell’estate, per mantenermi, spillo birre agli ubriachi della Festa dell’Unità di Genova. Nel corso della mia carriera ho sostenuto decine di provini, rilasciato alcune interviste televisive e non, partecipato a spettacoli teatrali, performance, cortometraggi, pubblicità, film, sperando nella svolta che mi cambiasse la vita. Ma dove sono arrivato, in che modo, cosa ho visto e vissuto e a che punto è la mia carriera, beh, questo lo potrete leggere dalla prossima puntata.





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