PICCOLA DEA CON LE EFELIDI - finalista "Lama e Trama" 2010



Se ne accorge a trenta chilometri dalla città, tra le colline che si vedono dall’autostrada.
Una sorta di ritardo nella percezione.
La luce del lampione si spande sui cofani delle macchine posteggiate; sull’erba schiacciata dagli pneumatici; sui cerchioni in lega delle berline di grossa cilindrata, e pare accenderli. Oltre il cono di luce del lampione, le sagome nere dei cespugli, piegate dal vento.
Solleva la mano, saluta. Capisce di essere fregato.
Sportelli di macchina che si chiudono. Inserimento di antifurti, doppie frecce.
Si avvicinano al centro del posteggio. La mano dell’uomo accarezza piano il cashmere del cappotto. Si scuote: l’orologio d’oro scivola al polso.
Una dozzina in tutto, stretti nei cappotti e nelle loro ombre nette. L’uomo titilla il pulsante dell’antifurto: doppie frecce della berlina alle sue spalle.  
Stretta di mano, la prima. La presa è potente, i palmi ghiacciati. Smorfie strane, tagliate a metà dalla luce.
Poi, gli altri. Quello che stringe e ti fissa. Quello che prima si tormentava la fede al dito. Quello che raschia in gola. Questione di poco, si dice l’uomo. Due o tre ore di tortura.
Salgono le scale in muratura. Entrano. L’uomo sistema il cappotto all’appendiabiti, con cura. Ecco. Già, pieno di pelucchi. Saltano come pidocchi dai cappotti di quei grassi balordi sciatti.
Poi, sala riservata e lungo tavolo, apparecchiato per dodici.
Dove sedersi. Chi vicino a chi. Si ragiona alla svelta,  prima che qualcuno decida per te e ti rovini la cena.  Quel tizio, laggiù in fondo, che alita sugli occhiali e spera ancora in un dietrofront generale. Illuso. Capito niente: il balordo di turno non ha resistito, e si è già seduto.  Gli altri a ruota, dove capita. 
Braccia conserte, mani a gabbia.
Panoramica sui vecchi compagni.
Desolanti facce gonfie. Il riporto che non nasconde nulla. Trapianto di capelli con effetto bambola. Rughe a taglio di coltello. Cazzo, non sono come voi.
Se le cose si mettono male, un impegno improvviso, roba del genere. Moglie figlia urgente scusate. Giusto un boccone per aggiornarsi sui progressi in carriera, un contatto può venire comodo. Poi, pacche sulla spalle, filare.
Antipasto. Insalata di mare: forchetta coltello e occhi incollati al piatto. Meno male. Basta coi discorsi inutili di poco fa.
Il tempo ti fa a pezzi. Dieci anni, e sei bollito. Sfatto. Chi ha telefonato, chi ha radunato il branco? Il solito balordo che non resiste all’evidenza e si sente solo. Funziona così. Passaparola con effetto vergogna se ti azzardi a confessare che non hai voglia di incontrare quei quattro rottami dei vecchi compagni.
Spaghetti allo scoglio. Buoni, al dente. Muscoli e vongole, di giornata. Nuovo giro di vermentino, trenta euro a bottiglia.
All’angolo, una macchia giallastra che si dilata. Il balordo di turno che ha mollato un pugno sul tavolo, e ora ride a bocca chiusa. Sputa il boccone nel tovagliolo. Non si fa, tirarla fuori così,  a tradimento, mentre beveva: quella volta in cui furono beccati a rubare alcolici al supermarket. Non si fa, cazzo. La cameriera con le efelidi  si china a pulire con lo straccio, e quello che ha rovesciato la bottiglia - giacca e cravatta  da piani alti – fa un gesto quando quella non vede.
Mordicchiarle il culo, alla ragazzina, eh?
Ridacchiano.
Grigliate di pesce in piatti di ceramica immacolata. Branzino e triglie, dagli occhi cotti e bianchi. Scampi: uno spettacolo. Vassoio d’acciaio con fritto misto, al centro del tavolo. Si allunga il braccio, si spilucca a caso. Totano, gamberetto. Acciuga. Polipetto. Tutti in maniche di camicia col nodo delle cravatte allentato, basta col cappio.
Bobo alza il calice.
Per i ragazzacci di un tempo che non sono cambiati. Brindisi. Per quella gran testa di cazzo del prof di diritto pubblico. Brindisi. Per la gnocca in tutte le sue forme e espressioni. Si butta giù, alla goccia. Brindisi (rettifica): per la gnocca che respira tra un discorso e l’altro, cazzo non stanno mai zitte. Scroscio d’applausi.
“L’inculamorti è tornato tra i vivi”, urlano.
Bobo annoda la cravatta sulla fronte e si fa largo tra le sedie. “Ecco la principessa sul pizzellone”, e palpa qua e là, strizza coglioni.
Urletti, risolini. Sfilano le cravatte.
Bobo sviene sulle cosce di una faccia da solarium.  “Sono la tua troia.”
Lo flagellano a cravattate.
Le urla arrivano al bancone del bar. La cameriera strappa il foglietto dal block notes dove ha appuntato le ordinazioni del dessert. Scioglie l’elastico dei capelli, li raccoglie a coda.
Bicchiere in frantumi. Il secondo, che rompono. Si volta. Sassaiola di tovaglioli, manco laggiù ci fosse una battaglia a palle di neve. Passa il foglietto al principale e gli sibila qualcosa. Ma Lui scuote la testa: tutto nella norma. Si è passato il limite, dice lei, anche se non sa bene di che limite stia parlando. Il principale chiude di colpo la porta a soffietto, rientra in cucina. Ecco. Ricominciano. Uno sui quaranta che raccoglie tovaglioli e munizioni e pezzi di pane. La cameriera appoggia la guancia sul metallo del bancone. Inspira a fondo. Basta, basta. E si accuccia dietro al bancone, il sudore le ha incollato la camicetta sulla schiena e sul davanti. Bianca com’è, si vede tutto: pizzo del reggiseno e anello all’ombelico. E poi il reggiseno è scivolato in su. Stira i lembi. Il principale molla tre porzioni di torta gelato sul bancone.  
Lei si alza. Sbottona un’asola della camicetta. Cambia sguardo. Riempie il vassoio.

Pioggia di tovaglioli, fischi.
L’inculamorti che ordina un brindisi per la dea con le efelidi. Ringraziamo la Madre Terra. Un ecatombe in suo onore. Cento buoi scannati, non uno di meno.  Ma deve bere anche lei, non si può rifiutare. Pena, la morte. Quando torna al bancone per prendere le ultime porzioni di torta gelato, sente cedere le gambe. Crolla contro al mobile della cassa. La testa di cinghiale le sembra ancora più brutta. Le anitre impagliate. Il falco. Controlla l’ora sopra alle bottiglie del bar. Non doveva bere, le gira la testa. Prova a stirare un lembo della camicia, ma rinuncia, troppo stanca. Scivola oltre la soglia.
“Quanti anni hai, piccola dea?”, la mano dell’inculamorti l’agguanta sotto all’ascella.
“Diciassette.”
I vecchi compagni d’università - occhi rossi, camicie fuori dai pantaloni - ridono piano. Lei arrossisce. Copre l’ombelico con la mano.
 “Stai cercando il principe azzurro”, Bobo si gratta la pancia.
La cameriera abbassa lo sguardo.
“Calzamaglia cavallo castello…?”
Sguardi d’intesa. Ghigni.
“Io mi venderei mia madre per te, cazzo”, azzarda Bobo.
“Anche la moglie”, fa uno.
 “Ti compro il cavallino”, le sussurra.
L’hanno circondata.
“Mio padre ha la vostra età”, balbetta lei.
“Ma così ci spezzi il cuore”, Bobo si asciuga le lacrime con la cravatta stretta in fronte. “Ce l’hai il fidanzatino? Su, dillo a zio Bobo.”
“Ammazzacaffè”. Si voltano tutti. Il principale, con una bottiglia dal collo lungo. “Liquore della casa”, dice. “Ricetta segreta. Ingrediente segreto.”
“Bicchieri!”, urlano rabbiosi, ma il principale spiega che il liquore speciale si beve in modo speciale. Un volontario.
“Bo-bo, Bo-bo!”
L’inculamorti si abbandona sulla sedia. “Tutto in bocca, a-mo- re”, dice con la voce da principessina sul pizzellone. “Riempimi tutta.”
Il principale reclina adagio la bottiglia e lo zampillo innaffia narice, labbra, la lingua srotolata da cane.
“Bobo, ti pisciano in bocca.”
 Scoppiano a ridere.
L’abbronzato da solarium picchietta sulla spalla del principale.
“Tocca a me, bell’uomo. Ma fai piano:  per me è la prima volta.”
Ridono.
Il principale fa l’occhiolino alla cameriera che se ne stava nascosta. 

Pagano con carta di credito, ammassati alla cassa. Vorrebbero fare alla romana e fanno il conto esatto, ma si confondono e non si capisce chi abbia pagato e quanto.
Escono dal ristorante con la giacca a tracolla, cappotto sottobraccio. Scendono le scale, e si attaccano ai rampicanti d’edera per rallentare la discesa, le gambe fanno scherzi a certe ore della notte. Uno dice: ”Ho perso le chiavi”. Poi: ”No, eccole.” I bip del disinserimento antifurto scattano quasi all’unisono.
“Ricomincio a fumare” annuncia Bobo e quello gli passa una sigaretta e blatera qualcosa, che i libri per smettere sono stronzate colossali. Business. Milioni di copie vendute ai fessi. Meglio godersela e crepare alla svelta. Espira. Giusto?
Non risponde nessuno.
“Aahhh!”
Sono in fila, dietro al furgone del ristorante, la lampo tirata giù, che pisciano insieme.
 “Ti svuoti e ricominci a ragionare.”
 “Mi prende fuoco il cazzo.”
“Con quello che ci fai.”
“Ti sgrullo sui mocassini, frocio.”
“Imbecille. Morto di fame.”
Ridono.
“Morto di fame, te. Io, i soldi ce li ho.”
“Ci han fatto bere la benzina, ci han fatto bere.” dice Bobo, a gambe larghe davanti alla ruota del furgone. Indica la piscia calda che si condensa.
Poi nuvolette di sospiri, in controluce.
Già. I vecchi tempi.
Cioè, mica colpa tua. Mangi o sei mangiato, ormai.
Il Sistema. Il Grande Meccanismo.  
Comunque se pisci vicino a un altro senza sentirti in pericolo, allora ci puoi giurare: amici per sempre. Per la vita. Tutti d’accordo, fanno sì con la testa, e il primo che ha finito di pisciare non ha voglia di chiudere la lampo, anche se gli si ghiacciano le palle.
Ma poi le gambe diventano inquiete, mica per il freddo.
Ci vediamo, ti chiamo, una mail. Saluti finali. Vengo alla prima comunione di tuo figlio. Al battesimo. Ci aggiorniamo. Due chiacchiere al cellulare. Quello col riporto annuisce e ha gli occhi da bambino, sembra un ebete. Quello che evita gli sguardi: separato in casa, gli tocca la draghessa, ora. Allora, va bene così. Andiamo. Controllano i messaggi sul cellulare, un’altra volta. Silenzio.
“Fanculo tutti”.
Bobo dà una pacca all’abbronzato.
Il branco si scioglie. Corrono, quasi. Accendono il motore, manopola del riscaldamento livello 4. Il parcheggio è stretto, quasi s’incastrano nel fare manovra. Poi un pezzo di strada non asfaltata in mezzo al nulla.
Al primo incrocio, rotatoria. Colpo di clacson.
Sgommano fuori dalle palle.

Vicino all’asta del lampione, una berlina con due persone dentro.
 “Andiamo?”, dice e è già voltato per fare retromarcia.
Folata di vento sul parabrezza.
“Soffoco.”
“Cosa?”
Solo la punta del naso e labbra che tremano: la luce del lampione filtra appena. L’uomo alla guida fa per accendere la luce di servizio, ma l’altro gli blocca la mano.
“Per favore”, e slaccia la cintura di sicurezza.
“Se devi vomitare, vai fuori”, gli apre la portiera.
Ci mancava anche questa: il balordo grasso fallito, rannicchiato oltre il muretto divisorio che piange come un suino.
“Ma dove vai? ”, gli urla dall’interno.
Ora, corre. Scompare nel buio.
L’uomo si volta verso i sedili posteriori. I pelucchi sul cappotto di cashmere: spazzolarlo prima di andare a dormire. Cinque ore di sonno. Sveglia alle sette. Luce dello schermo del cellulare. Nessun messaggio. Si guarda intorno. Vento e cespugli, ombre sulla ghiaia. Accende l’autoradio. Una musichetta che va e viene. Spegne. Slaccia il cinturino dell’orologio d’oro e massaggia il polso.
Quella luce strana. Non ci fosse la luce dei lampioni sai che ridere. Al diavolo scrupoli e le belle parole. Una giungla.
“Apri”.
“Cazzo ti prende.”
“Dovevo correre.“ Il balordo copre la bocca con la mano, scoppia a ridere. “No, scusa, ma c’hai una faccia“, reclina lo schienale, braccia dietro alla testa.
Finestre del ristorante: la cameriera taglia la visuale. Sembra guardare fuori, nella loro direzione.
“Si è accorta e tra poco esce”, dice l’uomo.
Il balordo scatta su. Sigaretta sulle labbra. “Devo fumare, sennò mi metto a urlare.”
Esce. Accendino e fiamma tra le mani che tremano. Lunga boccata. “I libri per smettere di fumare. Stronzate.”
“Non fare cazzate.”
“Che cazzate?”
“Non lo dire a Carla.”
“No no no. Mollo tutto.”
“C’è Carla, e i bambini.”
Il balordo spegne la sigaretta col tacco del mocassino sporco di fango. Sputa sul finestrino di una macchina posteggiata. “Quello è il sangue del mio cuore, lo vedi? Sto a pezzi. E ho quarant’anni, cazzo.”
Si rannicchia, testa tra le gambe. Fa una specie di verso, come un animale. Si solleva, viso congestionato. “Non guardarmi come se fossi un coglione. Perché io sono il meno coglione dei due.” Altro conato di vomito. “Io e la ragazzina facciamo l’amore. Capisci? Una specie di luce.”
“Sì, scopate.”
“Mi dico d’andarci piano, io.” Sorride. “Ma lei fa certi discorsi. Che è troppo piccola per me. E poi c’è quella cagna di mia moglie.”
“Ti ha dato due figli, la cagna.”
“Si fottano.”
“Si fottano.”
Grida. “Gli ha cagati per la strada, i figli.”
“Non urlare”
“Che palle”, bisbiglia l’altro. È sudato. Pochi capelli incollati alle tempie. “Io voglio stare solo con lei”, ansima. “Solo, solo con lei. Ma lei non mi vuole più, non mi vuole più.”
“A quell’età che ti aspetti? Diciassette anni.”
Il balordo annuisce e vorrebbe abbracciarlo, ma quello gli dà una pacca sulla schiena, e taglia corto. “Senti, te la sei scopata. Ora, basta. Tieniti Carla e i soldi e andiamocene.”
“Ma io non ce la faccio, non la voglio più vedere quella cagna schifosa.” Il balordo retrocede di mezzo passo e l’uomo nota quella luce strana, che fa luccicare la lama del coltello da tavola.
“Sei fuori di testa L’hai rubato al ristorante?”.
“No, no.”
“Non mi fare incazzare.” L’uomo lo agguanta per la manica. “Fila dentro.”
L’altro si divincola e piagnucola piano, scuote la testa.
“Guarda che  me ne fotto di te.” L’uomo rientra in macchina. “Io me ne vado.” Rombo di motore. 

Si affievolisce la luce del lampione. 
I neon del ristorante, spenti uno a uno: buio.
La ragazzina con le efelidi scende i gradini della scala in muratura. Illumina i rampicanti d’edera con la luce del cellulare. È così stanca. Nausea. E non è stata una bella sera. Brutta gente. E c’era lui. Cosa si è messo in testa? Scioglie l’elastico dei capelli che le scivolano sulla schiena. A una certa età, gli uomini impazziscono. Ossessivo. Che palle. Pretese assurde. Pianti. Infila il casco. Aveva persino paura che le facesse una scenata davanti a tutti.
La marmitta scoppietta nel silenzio. Il vento si è placato.
Imbocca la strada in terra battuta, i solchi la fanno saltellare sul sellino.
Nuvole di polvere, illuminate dal faro. Cespugli ai margini.
Oltre, distese di prati neri.
lI ronzio del motore, uguale. Costante.
Mani che si agitano. Lei inchioda, quasi cade. Sgrana gli occhi.
“Fermati”, le balbetta lui con voce roca. “Fermati, amore.”


Si avvicina.

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